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19.11.2011

L´estinzione C/P: tra Chicxulub e Trappi del Deccan

Fino a circa cinquanta anni fa il limite Cretaceo-Paleocene (C/P), famoso per l´estinzione di massa che decretò la fine di alcuni dinosauri, era in sostanza sconosciuto per via della mancanza di una successione stratigrafica completa. 
Nel decennio 1960-1970 il geologo americano Walter Alvarez studio nella gola del Bottaccione (nei pressi di Gubbio, Umbria) una successione di calcari e marne - la formazione della "Scaglia rossa" - e cerco di calcolare la velocità di deposizione di questi strati torbiditici del Cretaceo - Paleocene.

Fig.1. La transizione Cretaceo - Paleocene nella formazione della "Scaglia rossa" (rotata di 90°, il Paleocene si trova di sopra).

Durante la ricerca sulla concentrazione di micro-meteore nei sedimenti scopri un'anomalia nella concentrazione di elementi rari, come per l´esempio l´Iridio. La concentrazione era talmente elevata che era difficile spiegare il fenomeno solo con un'ipotetica fluttuazione del tasso di sedimentazione della Scaglia Rossa. In un primo momento Walter, insieme al padre e fisico (e premio nobel) Luis W. Alvarez, propose una supernova e un incremento della caduta di polvere cosmica sulla terra come fonte dell´Iridio, ma ben presto cambio idea, formulando l´ipotesi di un impatto di meteorite metallico sulla terra. Per avvalorare l´ipotesi comunque mancavano successive prove e soprattutto il punto d´impatto. Tra il 1981 e il 1993 ricerche geofisiche scoprirono un immenso cratere d´impatto (con un diametro di 180 chilometri) nelle profondità della penisola dello Yucatan - denominato Chicxulub. Datazioni rivelarono che aveva l´età giusta per coincidere sia con l´incremento di Iridio, sia per spiegar l´estinzione di fine Cretaceo (il materiale fuso durante l´impatto e recuperato durante le trivellazioni fu datato a 65, 07 + -0,1 Ma). 
L´impatto di Chicxulub (e altri) è volentieri visto nei media e nel collettivo generico come l´unico fattore plausibile per spiegare l´estinzione alla fine del Cretaceo, ma durante questa transizione sono state osservate molte altre e profonde variazioni sulla terra - cambiamenti climatici, fluttuazione del livello marino e un intenso vulcanismo.

Secondo lo scenario proposto l´impatto uccise prima per via diretta (calore e onde di pressione sia nel cielo sia nel mare) e poi in modo indiretto: le polvere e i gas sprigionati dall´esplosione modificarono il clima, causando una piccola era glaciale, inoltre oscurarono il cielo, rendendo fotosintesi impossibili a tutte le piante. Dopo la morte delle piante ben presto tutte le catene trofiche collassarono - per primo morirono gli erbivori, seguiti ben presto dai piccoli carnivori e infine i grandi predatori. Ci sono diversi problemi con questa ricostruzione, che si basa più su considerazioni teoretiche che sull'evidenza dei fossili.
L´estinzione di fine Cretaceo fu sorprendentemente selettiva: nei mari si estinse il nannoplancton, foraminiferi planctonici, molluschi come le ammoniti e i grandi rettili. Comunque nello stesso ambiente sopravissero i foraminiferi bentonici, le diatomee, il gruppo dei radiolari e gran parte dei bivalvi e soprattutto i pesci. Sembra difficile spiegare come organismi autotrofi come i radiolari sopravissero a un ipotetico inverno nucleare e una notte post- apocalittica; com'è difficile spiegare perché pesci, che hanno bisogno del fitoplancton, riuscirono a trovare abbastanza cibo quando i rettili marini perirono.

Inoltre l´esatta datazione e processo dell´estinzione dei vari gruppi di organismi è incerta - non si sa esattamente se un determinato gruppo si è estinto esattamente 65 milioni di anni fa o forse già prima. 
Da diversi anni il gruppo di ricerca attorno all´americana Gerta Keller ha messo in dubbio le datazioni proposte, basandosi soprattutto sul processo di estinzioni di foraminiferi. Keller ha proposto che già prima di Chicxulub molte specie di foraminiferi mostravano un declino o erano già estinte. Inoltre secondo l´interpretazione di una stratigrafia nei pressi di Brazos (Texas) ci furono più di un singolo impatto nel Cretaceo superiore, che comunque non avevano quasi nessun effetto sulle comunità di fossili studiate.

In una nuova ricerca condotta su sedimenti e fossili dell´India il gruppo di lavoro ha proposto una via di mezzo per spiegare sia il declino precedente e considerando possibili effetti di un impatto.
I Trappi del Deccan sono un territorio igneo localizzato nella parte centro occidentale dell'India, e rappresenta una delle più estese zone vulcaniche del pianeta. Sono datati a un´età di 60 a 65 milioni di anni -  è considerate per questo da molti ricercatori come alternativa all´impatto per spiegare l´estinzione di fine Cretaceo. Comunque l´esatta cronologia dei Trappi rimaneva un mistero - poiché un periodo di cinque milioni di anni sembrava troppo lungo per spiegar una (dal punto geologico) improvvisa estinzione di massa. 

Solo negli ultimi anni nuove tecnologie hanno reso possibile  capire meglio il processo di formazione: I Trappi del Deccan si sono formati in tre singole fasi, iniziate 67,5 milioni di anni fa. La seconda fase eruttiva e quella più forte è responsabile di circa l´80% della massa complessiva dei depositi vulcanici - ed è proprio questa fase che coincide con la maggiore estinzione dei foraminiferi studiati. L´ultima (la terza) fase eruttiva, la più debole, è datata a 300.000 anni dopo il picco complessivo dell´attività vulcanica (figura 2 secondo KELLER).
Secondo il nuovo scenario la prima fase di attività vulcanica ha ridotto notevolmente il tasso dell´evoluzione dei foraminiferi e indebolito le popolazioni esistenti, anche se non ha causato un'estinzione di massa. La seconda fase, quella più forte, ha colpito ecosistemi indeboliti dalle eruzioni precedenti - è proprio in questo periodo che molte specie studiate scompaiono nel record fossile. Dopo questa estinzione i mari furono lentamente ripopolati da specie opportunistiche - ma i sedimenti mostrano anche un livello ricco di Irido - occorre una seconda estinzione di massa che termina con la terza fase vulcanica. 

Fig.3. I cambiamenti nella comunità di foraminiferi studiati - si osservano delle estinzioni di singole specie, ma anche un generale indebolimento e rimpicciolimento delle specie superstiti (secondo KELLER)

Il gruppo di ricerca non nega completamente il ruolo di vari impatti di asteroidi sulla biodiversità, ma propone una catastrofe combinata per spiegare meglio la cronologia e selettività dell´estinzione Cretaceo-Paleocene. L´incremento dell´attività vulcanica indebolisce per migliaia di anni prima dell´impatto (gli impatti?) gli ecosistemi della terra - è durante questo periodo che molti organismi non riescono ad adattarsi alle nuove condizioni. I gas e le ceneri hanno modificato il clima, i livelli dei mari si abbassano, forse anch´essi per via dell´intensa attività magmatica del pianeta, infine l´impatto di asteroide - non forte come proposto in passato ma che colpisce in un momento critico - che decreta la fine di molti gruppi di organismi.

Bibliografia:

ALVAREZ, W., ALVAREZ, L.W., ASARO, F. & MICHELl, H.V. (1979): Anomalous iridium levels at the Cretaceous/Tertiary boundary at Gubbio, Italy: Negative results of tests for a supernova origin. In: Cretaceous-Tertiary Boundary Events Symposium; II. Proceedings (Eds W.K. Christensen and T. Birkelund), pp. 69. University of Copenhagen
ALVAREZ, L.W., ALVAREZ, W., ASARO, F. & MICHEL, H.V. (1980): Extraterrestrial cause for the Cretaceous-Tertiary extinction. Science 208: 1095-1108
ALVAREZ, W. (2009): The historical record in the Scaglia limestone at Gubbio: magnetic reversals and the Cretaceous-Tertiary mass extinction. Sedimentology 56: 137-148
BAKER, V.R. (1998): Catastrophism and uniformitarianism” logical roots and current relevance in geology. In: BLUNDELL, D. J. & SOTT, A. C. (eds.) Lvell: the Past is the Key to the Present. Geological Society, London, Special Publications, 143: 171-182
FRENCH, B.M. (2003): Traces of Catastrophes: A handbook of Shock-Metamorphic Effects in Terrestrial Meteorite Impact Structures. Lunar and planetary Institute
KELLER, G.; ABRAMOVICH, S.; BERNER, Z. & ADATTE, T. (2009): Biotic effects of the Chixulub impact, K-T catastrophe and sea level change in Texas. Paleogeography, Paleoclimatology, Paleoecology 271:52-68
SCHULTE et al. (2010): The Chicxulub Asteroid Impact and Mass Extinction at the Cretaceous-Paleogene Boundary. Science 327(5970): 1214 – 1218

08.11.2011

L´arte rupestre tra fauna preistorica e genetica

L´arte rupestre preistorica dell´Europea è molto ricca, più di 100 siti sono conosciuti, perlopiù in Spagna e Francia, con più di 4.000 rappresentazioni di animali. Più di un terzo di queste raffigurazioni mostrano cavalli in diversi stili artistici, da disegni dettagliati e molto naturalistici a forme astratte o semplici sagome disegnate con le dita sul suolo fangoso. La caverna di Pech Merle (Francia meridionale) è particolare dato che un grande disegno su una parete di roccia mostra macchie nere su sfondo bianco, sia dentro sia al di fuori della sagoma di due cavallini. Il disegno, datato a 25.000 anni, fu interpretato perlopiù come rappresentazione simbolica di significato conosciuto, poiché il particolare disegno di macchie nere e bianche é conosciuto solo da animali addomesticati da almeno 10.000 anni. 

Fig.1. Diverse rappresentazioni di cavalli nell´arte rupestre, esempi delle caverne di Lascaux, Chauvet e Pech Merle. Secondo analisi genetiche è possibile che tutte le raffigurazioni siano state ispirate da livree di animali reali - esempio di cavallo di przewalski e moderne razze di cavallo (immagine presa da PRUVOST et al. 2011).

Una nuova ricerca genetica ha ora rilevato che l´artista potrebbe essersi comunque ispirato ad animali reali. Un gruppo di ricercatori tedeschi e inglesi ha analizzato il DNA recuperato da trentuno resti fossili di cavalli, proveniente da tutta l´Eurasia e datati da 20.000 a 2.000 anni fa. Secondo i profili genetici ricostruiti diciotto cavalli avevano una pelliccia chiara, 7 erano scuri, ma 6 mostrano una mutazione genetica che causava una pelliccia a macchie bianche e nere. Le macchie bianche e nere erano particolarmente diffuse tra i resti fossili provenienti dall´Europa dell´est e ovest, dei dieci esemplari studiati quattro mostrano la particolare mutazione. Secondo i ricercatori è possibile che questa mutazione e livrea fossero molto più frequenti durante le fasi glaciali nella popolazione equina europee, poiché provvedeva una sorta di mimetismo nella tundra coperta da neve. Dopo i 14.000 anni la particolare varietà divenne molto rara, finche é stata riscoperta da moderni allevatori.
Comunque le raffigurazioni nell´arte rupestre, anche se fossero state ispirate dal mondo naturale, contengono anche molti particolari spirituali e un forte simbolismo. Le macchie di Pech Merle non sono solo distribuite sugli animali, ma anche in file attorno alla testa e il corpo dei due cavallini, con tanto d'impronte di mane umane. Il significato di questa composizione rimane un mistero.

Bibliografia:

PRUVOST, M. et al. (2011): Genotypes of predomestic horses match phenotypes painted in Paleolithic works of cave art. Proceedings of the Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America.

16.07.2010

Fossile mette in dubbio la datazione della diversificazione principale nelle scimmie del Vecchio Mondo

I due rami evolutivi che hanno portata da un lato agli ominidi (Hominoidea), inclusi noi stessi, e dall’altro verso il gruppo dei moderni cercopitechi (Cercopithecoidea) si sono separati più recentemente di quanto finora postulato.
Questa nuova ipotesi di datazione si basa sul ritrovamento di un cranio parziale nell'odierna Arabia Saudita occidentale.


Dai resti frammentari conosciuti precedentemente e considerati intermedi tra i due gruppi, datati tra i 23 - 30 milioni di anni, si era concluso che la diversificazione sia avvenutoa come minimo tra i 30 ai 35 milioni di anni fa.


Ma i nuovi fossili, rinvenuti nel 2009 nella parte mediale della formazione geologica di Shumaysi, sono stati datati a un’età compresa tra i 28 e 29 milioni di anni, e comprendono parti del cranio di un individuo maschile.
I caratteri più distintivi, per la sua attribuzione a un antenato comune, sono un muso protruso, mancante delle cavità nasali laterali e dei grandi molari. Questi caratteri secondo gli autori della ricerca non coincidono con i fossili delle scimmie del Vecchio Mondo (Catarrhini) finora conosciute, è sembrano confermare l’attribuzione di questa specie nell’area di transizione dei due grandi gruppi compresi nei Catarrini, che secondo la nuova ricerca si sono separati appena 28 milioni di anni fa.


Fig.1. Il fossile rinvenuto…

Fig.2. ... è il geologo Mohammed Ali (uno degli autori della ricerca) davanti alla Formazione di Shumaysi in cui è avvenuto la scoperta (fonte per entrambi le immagini: University of Michigan / Museum of Paleontology / Iyad S. Zalmout).

Bibliografia:


ZALMOUT, I.S.; SANDERS, W.J.; MACLATCHY, L.M.; GUNNELL, G.F.; AL-MUFARREH, Y.A.; ALI, M.A.; NASSER, A.H.; AL-MASARI, A.M.; AL-SOBHI, S.A.; NADHRA, A.O.; MATARI, A.H.; WILSON, J.A. & GINGERICH, P.D. (2010): New Oligocene primate from Saudi Arabia and the divergence of apes and Old World monkeys. Nature Vol. 466: 360–364 doi:10.1038/nature09094

17.06.2010

Identificate tracce di denti di mammifero su ossa del Cretaceo (tra cui di dinosauro)

Fig.1. Le tracce identificati come probabili segni di un mammifero che ha rosicchiato l’osso, da MUZZIN 2010.

In un comunicato di stampa provvisorio dell'Università di Yale viene annunciata la notizia che nella rivista "Paleontology" paleontologi hanno pubblicato la scoperta di impronte di denti di mammiferi su diverse ossa, tra cui anche di dinosauro. Se confermato, queste sono le più antiche testimonianze di questo tipo di ichnotraccia identificato finora.

Nicholas Longrich, dell'Università di Yale, è Michael J. Ryan, del Cleveland Museum of Natural History, hanno riscoperto varie ossa nella collezione dell' Università dell' Alberta e del Royal Tyrrell Museum, è altre ancora durante una campagna di scavi nella provincia di Alberta.
Tutti i fossili provengono da sedimenti del Cretaceo, i segni sono stati trovati su un femore di Champsosaurus (rettile aquatico), su una costola di dinosauro (Hadrosauria/Ceratopsia indet.), femore di presunto ornithischio e su una mandibola di un marsupiale.


L' attribuzione dei segni a dei mammiferi multitubercolati viene supposta sulla base di due solchi paralleli tra di loro, simile alla conformazione di due incisivi paralleli, caratteristica conosciuta solo dai mammiferi in quel periodo. Molte ossa mostrano multipli segni disposti in fila sulla circonferenza dell' osso.
I paleontologi assumono che le ossa sono state rosicchiate non per scarnificarli, ma per il loro contenuto di minerali e per soddisfare il bisogno alimentare supplementare dell' animale in questione.


Risorsa:

MUZZIN, S.T. (2010): Dinosaur-chewing mammals leave behind oldest known tooth marks. Online 16.06.2010, consultato 17.06.2010

14.06.2010

Sulle orme dell´Ichnologia italiana

L´Ichnologia é considerata una branca delle scienze della terra relativamente giovane, anche se, come i fossili "comuni", impronte fossili erano notate già nell'antichità, é hanno trovato spesso espressione nei miti e nelle leggende dei popoli.

Ma solo nel 19° secolo le impronte vengono soggetti dell'ichnologia - la scienza delle impronte di vita di animali e piante - con le prime ricerche condotte dal reverendo Buckland, con la descrizione del Chirotherium - l´animale dalle mani - in sedimenti triassici dell´Europa e con il riconoscimento che strane strutture sedimentarie, considerati resti di vegetali, rappresentano le impronte dei movimenti di animali invertebrati.


I sedimenti mesozoici e cenozoici della penisola italiana hanno giocato un importante ruolo nel progresso di questa disciplina. Le marne a Fucoidi sono denominate proprio per l´abbondanza di questo icnogenere, di cui l'icnospecie Fucoides (=Chondrites) targionii é stata descritta nel 1823 dal geologo francese Adolphe Brongniart basandosi su materiale italiano.

Fig.1. Fucoides, Gola del Bottaccione, Gubbio.

Il termine si trova spesso in pubblicazioni o guide della geologia italiana - é, infatti, é una struttura sedimentaria molto diffusa nelle formazioni dell´Appenninico, anche se a quei tempi si riteneva che si trattasse di un resto vegetale, e non un'impronta di scavo da parte di un organismo animale. I
grandi geologi inglesi Lyell e Murchinson entrambi visitarono l´Italia per studiare gli affioramenti di queste rocce e i loro icnofossili.

Nel 1855 il naturalista Abramo Massolongo denomina formalmente l´icnogenere Zoophycos, descritto poco prima da Antonio Villa (1844), e nel 1850 Giuseppe Meneghini descrive Paleodictyon, a ancora insieme a Paolo Savi nello stesso anno descrive Nemertilites (=Scolicia), tutti icnogeneri molto diffusi è di notevole importanza per la ricostruzione paleo ambientale della formazione geologica.

Fig.2. Zoophycos dal Capo Rossello, Sicilia.

Ma già nel 16° secolo, quasi 300 anni prima, alcuni naturalisti del rinascimento italiano hanno studiato icnofossili è speculato sulle loro origini. Tra questi spicca il genio universale di Leonardo da Vinci, che basandosi sulle sue osservazioni di animali recenti scopri cose eccezionali per il suo tempo sui fossili.
È noto che Leonardo rifiuta il mito che vuole i gusci (i suoi "nichi", come li descriveva) nei sedimenti come testimonianza del diluvio universale, e riconosce che per il processo di formazione di queste "caratteristiche" nei sedimenti si ha bisogno di molto tempo: una prima idea del processo di fossilizzazione.
Scrive a proposito nel Codice "Leicester":

"Come tutti li fanghi marini ritengano ancora de "nicchi", ed è pietrificato il nicchio insieme col fango."

Meno noto é che Leonardo si interessò anche di tracce impresse nel sedimento e bioerosione in forme di tane "scavate", a pari come un tarlo nella legna, nei gusci. Basandosi su osservazioni di gusci recenti e la vita marina nei littoriali, Leonardo riconosce che i singoli strati rappresentano dei sedimenti depositati in antichi fondali marini:

"Come nelle falde, infra l´una e l´altra si trovano ancora gli andamenti delli lombrici, che camminavano infra esse quando non erano ancora asciutte."

Sui buchi di gusci fossili scrive:

"Ancora resta il vestigio del suo andamento sopra la scorza che lui già, a uso di tarlo sopra il legname, andò consumando."

e ancora

"Vedesi in nelle montagne di Parma e Piacentia le moltitudini di nichi e coralli intarlati".

Leonardo uso un approccio molto moderno: l' attualismo - paragono i vecchi segni con tracce di moderni animali, é giustamente riconosce la loro "parentela".
Ma Leonardo comunque, come é noto, non sostenne mai i suoi risultati pubblicamente, e il suo sapere andò perso per le prossime generazioni.

Erano comunque tempi pericolosi, il naturalista Ulisse Aldrovandi, vissuto poco dopo Leonardo, fini i suoi ultimi anni di vita in arresto domiciliare, accusato di eresia.
Nella sua opera più importante, il "Musaeum Metallicum" (1648) descrive e rappresenta centinaia di fossili, minerali e tracce fossili, a pari di stranezze e mostri mitologici - anche se incline all´osservazione personale, Aldrovandi combina come del resto gran parte dei naturalisti di quei tempi, l´approccio scientifico di Galileo con l´approccio teoretico e filosofico dei pensatori dell'´era classica greca.

La conoscenza che fossili rappresentano i resti e le impronte di animali verrà accettata universalmente appena a meta del 18° secolo, anche se si rimarrà dell´idea che siano i testimoni del diluvio universale...

Fig.3. Non solo invertebrati - impronta tridattile del Gargano.

Bibliografia:

BAUCON, A. (2008): Italy, the Cradle of Ichnology: the legacy of Aldrovandi e Leonardo. Studi. Trent. Sci,Nat., Acta Geol. 83: 15-29

30.05.2010

Darwin e la teoria degli equilibri punteggiati

Charles Darwin nella sua opera più nota stranamente quasi non menziona i fossili che lui stesso raccolse nel Sudamerica, a parte brevi accenni nell' introduzione.

"WHEN on board H.M.S. 'Beagle,' as naturalist, I was much struck with certain facts in the distribution of the inhabitants of South America, and in the geological relations of the present to the past inhabitants of that continent. These facts seemed to me to throw some light on the origin of species-that mystery of mysteries, as it has been called by one of our greatest philosophers."

Fig.1. Il fossile che Darwin attribuisce a un piccolo mammifero roditore, dalla formazione di Monte Hermoso nell´Argentina (Pliocene inferiore), da DARWIN 1840, Fossil Mammalia Pl. XXXII.

Al contrario un intero capitolo di "Origin of Species" è dedicato alle lacune del record geologico è l'apparente mancanza di fossili di transizione. Questa discrepanza era nota già a Lamarck, che aveva postulato (e formulato una teoria) che le specie non sono fisse, è i limiti discreti tra di loro sono il risultato di una preservazione incompleta di forme di transizioni durante l'atto di fossilizzazione. Questa idea verra adoperata anche da Darwin ("Chapter IX, on the imperfection of the geological record").
A meta del 19. secolo era chiaro che specie si potevano estinguere, ma rimase il problema di come queste estinzioni avvengono e come dopo una di queste fasi il pianeta veniva ripopolato. Anche Darwin durante il suo viaggio sul Beagle, ancora prima della formulazione della sua teoria di trasmutazione, si chiedeva se delle specie possono morire e in che modo vengono rinate (escludendo una creazione divina), un'idea che era stata anche ipotizzata dal geologo italiano Giovanni Battista Brocchi nel 1814 (dimostrando ancora una volta il profondo cambio di pensiero in quei decenni).
Osservando fossili simili all'odierna Mara (Dolichotis patagonum), un roditore sudamericano che assomiglia a un piccolo cervo, Darwin pensava che specie venivano rimpiazzate nel tempo da forme simili tra di loro (Owen determinerà i fossili appartenenti a un relativo dell' odierno tucutucu o tuco-tuco, piccolo roditore del genere Ctenomys).

Comunque queste forme rimanevano entità concrete nello spazio e nel tempo, per esempio sul Warra, la volpe endemica e estinta che Darwin poté ancora osservo sulle Isole Falkland, scrive nel 1834 "…indisputable proof of its individuality as a species…".
Darwin comincio a lavorare sulla sua teoria dopo il ritorno in patria, e in un primo tentativo cerco di conciliare la sua vista delle specie come entità concrete con una possibile trasmutazione tramite salti concreti tra specie, cioè una specie poteva dare "nascita" a una nuova specie entro breve tempo.

Continua...

Fig.2. Le tre possibili relazioni di forme fossili di un certo orizzonte e recenti elaborate da Darwin tra il 1832 e 1835. Nel caso A il bradipo gigante/ armadillo gigante si estinguono e vengono rimpiazzati dalle specie recenti. Le specie non hanno una connessione diretta tra di loro. Nei molluschi (caso C) Darwin osserva una continuità delle specie, che persistono attraverso il tempo geologico. Il caso B é una versione intermediata dei primi due, i resti fossili dei peculiari roditori sudamericani sono relati con specie di roditori moderni, che si susseguono nel tempo geologico (ELDREGE 2008).

Bibliografia:

DARWIN, C. R. (1859): On the origin of species by means of natural selection, or the preservation of favoured races in the struggle for life. London: John Murray. [1st edition]
DARWIN, C. R. ed. (1840): Fossil Mammalia Part 1 No. 4 of The zoology of the voyage of H.M.S. Beagle. By Richard Owen. Edited and superintended by Charles Darwin. London: Smith Elder and Co.
ELDREDGE, N. (2009): A Question of Individuality: Charles Darwin, George Gaylord Simpson and Transitional Fossils. Evo. Edu. Outreach 2(1): 150-155
ELDREDGE, N. (2008): Experimenting with Transmutation: Darwin, the Beagle, and Evolution. Evo. Edu. Outreach 2(1): 35-54
QUATTROCCHIO, M.E.; DESCHAMPS, C.M.; ZAVALA, C.A.; GRILL, S.C. & BORROMEI, A.M. (2009): Geology of the area of Bahia Blanca, Darwin´s view and the present knowledge: a storay of 10 million years. Revista de la Asociacion Geologica Argentina 64(1): 137-146

21.05.2010

Il mammifero e il suo pelo

Una delle caratteristiche fondamentali di tutte le specie di mammiferi sono la presenza di peli sulla dermide, che fungono da strato isolante e giocano un importante ruolo nel mantenimento della temperatura corporea. La struttura dei peli può essere di importanza tassonomica, infatti, molte identificazioni in campo aperto e studi forensi si basano sul recupero e la determinazione di ciuffi strappati dalla peluria dell’animale. Grazie a questi studi per esempio è stato possibile identificare le pelli usati da “Ötzi” come indumenti, tra cui capra e cervo.I caratteri distintivi dei peli di mammifero sono.

- La struttura esterna dei peli: la forma e disposizione rispetto all'asse del pelo delle scaglie cuticolari.
- Il bordo delle singole scaglie.
- La grandezza e la distanza dei bordi delle singole scaglie rispetto all’intero pelo.

- La sezione trasversale e longitudinale del pelo e la forma della cavità centrale (medulla)

Fig.1. Le caratteristiche per descrivere il pelo di mammifero ( da BACKWELL et al. 2009).
- disposizione delle scaglie rispetto all’asse del pelo
- forma delle singole scaglie
- forma dei bordi delle singole scaglie
- distanza dei bordi delle singole scaglie ("grandezza delle scaglie")


Fig. 2. Esempi di strutture di peli osservate tramite microscopio elettronico. a,b) cercopiteco (Chlorocebus sp.), c) galago (Galago sp.), d) umano (Homo sapiens), preso da BACKWELL et al. 2009.

Con l'avvento delle tecniche genetiche, se in un pelo ritrovato è ancora integro il follicolo pilifero possono essere effettuati anche identificazione tramite il DNA delle cellule.

Anche se la ceratina, di cui sono composti i peli mammaliani, è abbastanza resistente alle intemperie del tempo, resti o impronte di peli di mammiferi sono abbastanza rari nel record geologico. Durante la fossilizzazione devono essere presenti condizioni particolari (p.e. ambiente anossico o asciutto), e gli spazzini che amano la ceratina come spuntino (p.e. coleotteri dermistidi) non devono avere accesso al reperto.

Dal Paleocene cinese (ca. 59-56 milioni di anni) sono conosciute impronte fossili di peli, conservati nelle feci di mammiferi carnivori e uccelli rapaci. La conservazione è talmente perfetta, che è stato possibile osservare le singole scaglie dei peli e a attribuire i resti a almeno quattro specie, tra cui probabilmente anche un rappresentante del genere Lambdopsalis, un Multitubercolato relativamente grande per i suoi tempi. La scoperta conferma che anche questi progenitori dei moderni mammiferi possedevano uno strato isolante costituito da peli.
Dalla Cina viene anche il più antico mammifero placentale con tanto di peli: Eomaia scansoria. Il fossile è stato rinvenuto nella formazione di Yixian (Provincia di Liaoning), datata al Cretaceo (125 milioni di anni). Lo scheletro conservato completo e in connessione anatomica è circondato dalla sagoma della folta pelliccia.


Nell’ambra sono conosciuti peli del Miocene della Repubblica Dominicana e del Mar Baltico, e dal Cretaceo della Francia è stato descritto l'esempio più antico finora conosciuto. Nel permafrost della Siberia e del Canada si sono conservati integri le pelurie di mammut e altri animali del Pleistocene.
La più antica testimonianza di capelli umani conosciuti fino all’ultimo anno erano resti trovati su una mummia del popolo dei Chincorro (Chile del Nord), datata a 9.000 anni, ma in un coprolite di iena vecchio più di 200.000 anni è stato descritto quello che viene interpretato come l’impronta di peli delle prime specie di Homo.

BIBLIOGRAFIA:

BACKWELL, L.; PICKERING, R.; BROTHWELL, D.; BERGER, L.; WITCOMB, M.; MARTILL, D.; PENKMAN, K. & WILSON, A. (2009): Probable human hair found in a fossil hyaena coprolite from Gladysvale cave, South Africa. Journal of ARcheological Science 36: 1269-1276
JI, Q.; LUO, Z.-X.; YUAN, C.X.; WIBLE, J.R.; ZHANG, J.-P. & GEORGI, J.A. (2002): The earliest known eutherian mammal. Nature (416): 816-822
MENG, J. & WYSS, A.R. (1997): Multituberculate and other mammal hair recovered from Palaeogene excreta. Nature 385(6618): 712-714

29.04.2010

Dinosauri surgelati?

Il clima durante il Cretaceo viene spesso immaginato come uniformemente caldo, sia nello spazio che nel tempo, e il dinosauro e il multitubercolato sono sempre (o quasi sempre) rappresentati in una foresta tropicale lussureggiante.
Le interpretazioni vecchie imputavano la temperatura media dal pianeta, molto superiore alle condizioni recenti, a un tasso di CO2 elevato e correnti marine che disperdevano l'energia solare efficacemente sull'intero globo (in parte come risultato della paleogeografia che differisce da quella odierna).
Una vegetazione subtropicale raggiungeva anche latitudini polari e i poli probabilmente non presentavano una coltra di ghiaccio.

Una nuova ricerca (PRICE et al. 2010) però ha messo in rilievo un possibile cambiamento climatico 137 milioni di anni fa. Studiando la composizione isotopica di minerali e fossili dell'isola di Svalbard (oggi situata nel circolo polare) i ricercatori hanno ricostruito un abbassamento della temperatura media dell'acqua marina da 13° a 4-7°. I fossili e le litologie riscontrate sono tipiche di un ambiente caldo-umido di palude e mare poco profondo, ma entro un breve arco di tempo (beninteso in senso geologico di alcuni migliaia di anni) si osserva un deterioramento climatico pronunciato nell' ambiente marino.

Questo studio conferma in parte ricerche più vecchie, che mostrano che la nostra immagine di un mesozoico formato serra con un clima omogeneo, e risultanti provincie faunistiche con poca variabilità climatica, è troppo semplicistico.


I valori isotopici di foraminiferi di 91 milioni di anni fa, proprio durante una fase con elevate temperature globali nel Cretaceo, con temperature dell'oceano che raggiungevano valori ricostruiti di 35-37°, mostrano che grandi quantità di acqua furono esportati dall'oceano (BORNEMANN et al. 2008). Di conseguenza anche il livello degli oceani si abbasso di 25 a 40m. Secondo gli autori della ricerca l'unica possibilità di stoccaggio di cosi grandi quantità di acqua sono ghiacciai.
La ricostruzione assume che sulla terra ferma (i mari rimanevano troppo caldi) durante fasi con un clima fresco (con valori annui in medi più alti, ma con estati relativamente fredde e umide) che potevano durare anche 200.000 anni, si sviluppavano ghiacciai, probabilmente nell'entroterra di continenti o su catene montuose. Si deve anche considerare che lo sviluppo di ghiacciai non dipende solo dalla temperatura, ma anche delle precipitazioni - in un clima globale più caldo anche l'evaporazione, e di conseguenza le precipitazioni possono aumentare, causando paradossalmente l'avanzamento di ghiacciai.

Fig. 2. Paleogeografia semplificata con zone climatiche ricostruite e siti di fossili "polari", tra cui "Dinosaur Cove", che già a quei tempi si trovava nei limiti del circolo polare.

Nel sito di Dinosaur Cove, nel nordest dell’Australia, si possono trovare arenarie e siltiti risalenti al Cretaceo superiore di 100 milioni di anni fa, depositati in una piana alluvionale con sparsi laghi che si estendeva nel rift che si stava aprendo tra l’Australia e l’Antartide. Il clima di questo sito, che ha restituito anche una peculiare fauna e flora, tra cui forse uno dei primi mammiferi placentali denominato Ausktribosphenos e ossa indeterminate di due specie di monotremi, è stato ricostruito grazie agli isotopi di ossigeno delle rocce e fossili di piante.
Il valore della temperatura media annua ottenuto tramite questi due metodi varia tra 0-8°C e i 10°. A sostenere e ampliare questa ricostruzione di un clima temperato a freddo e la geologia e la composizione della flora in generale , che è dominata da conifere, preadattati a condizioni fredde e secche, come risultano durante fasi di gelo. Abbondanti resti e spore di felci e muschi comunque mostrano condizioni che in media annua erano molto umide. La presenza di accumulazioni di strati di foglie per questo sono state interpretate come stagionali fasi in cui piante superiore cessavano la loro crescita – forse in risposta di una stagione fredda o secca, o una combinazione di questi due fattori. I singoli strati di arenarie in questo modello potrebbero rappresentare piene e risultanti alluvioni che scendevano dalle scarpate del rift quando con l’inizio della calda stagione incominciava la fusione dei ghiacci o la neve accumulata.


Con la ricostruzione sempre più dettagliata del paleo clima quello che emerge è che il clima già in passato presentava notevoli variazioni, e che il sistema clima dipende da moltissimi fattori, in parte non ancora compresi dalle scimmie nude che negli ultimi secoli hanno cominciato a giocarci.

BIBLIOGRAFIA:

ICKERS-RICH, P. & RICH, T.H. (1999): I dinosauri polari dell’Australia. L’evoluzione dei vertebrate. Le Scienze Quaderni. No.107

PRICE, G.D. & NUNN, E.V. (2010): Valanginian isotope variation in glendonites and belemnites from Arctic Svalbard: Transient glacial temperatures during the Cretaceous greenhouse. Geology 38: 251-254

BORNEMANN, A.; NORRIS, R.D.; FRIEDRICH, O.; BECKMANN, B.; SCHOUTEN, S.; SINNINGHE-DAMSTE, J.S.; VOGEL, J.; HOFMANN, P. & WAGNER, T. (2008): Isotopic Evidence for Glaciation During the Cretaceous Supergreenhouse. Science Vol. 319 (5860): 189 - 192 DOI: 10.1126/science.1148777

Immagine introduttiva: Copertina di "Turok - Son of Stones" del Marzo 1964

24.04.2010

Sulle orme dei sauri

La scoperta annunciata nel Marzo 2010 di ritrovamenti di impronte fossili di rettili nel Trentino (segnalato qui e qui) aggiunge un´ulteriore capitolo nella ricca storia geologica e paleontologica dei monti pallidi - le Dolomiti. I ricchi giacimenti di fossili reperibili e l´importanza per le scienze geologiche di questa area é stato uno dei motivi per dichiarare le Dolomiti patrimonio dell´umanità nel Giugno 2009.

La prima menzione di tracce di vertebrati fossili -icnofossili- risale al 1800-1802, quando un giovane studente scopri impronte di dinosauro nel Giurassico del Connecticut.
Ma si deve aspettare quasi fino al 1950 che l´icnologia, la scienza che studia le impronte fossili, si stabilisce come ricerca propria.
Considerando questo, le Dolomiti hanno giocato un ruolo importante nella storia e nello sviluppo dell´icnologia.

Nel 1891, in una cava di arenaria nei pressi di Gleno e Montagna, Provincia di Bolzano, il naturalista amatoriale F. Gasser raccolse uno strano frammento di roccia. Invio i reperti al paleontologo austriaco Ernst Kittel, che riconosce somiglianze con impronte di rettili scoperti pochi anni prima nella Turingia. Kittel pubblica una breve notizia del ritrovamento nella rivista del club turistico austriaco nel 1891 - era la prima impronta di rettile trovata nel Trentino-Alto Adige.


Fig.2. Sul notiziario dell´"Österreichischer Tourist Club" del 1891 compare la prima descrizione scientifica di un'impronta di rettile rinvenuta nell´area delle Dolomiti.

Anni dopo, nell´estate del 1931, Gualtiero Adami, ingegnere e collaboratore del Museo di Scienze Naturali della Venezia Tridentina, scopre durante un sopraluogo sull´altopiano di Piné una pietra su cui superficie era impressa una sagoma simile ad una lucertola. Il fossile fu consegnato al museo e studiato dal geologo Giorgio del Piaz, che durante una riunione della società Italiana per il Progresso Scientifico nel settembre dello stesso anno annuncio "la scoperta di un nuovo genere probabile di paleolacertide raccolto nei pressi di Piné in un sottile letto di tufo compreso entro il porfido permiano", che attualmente e in fase di studio. Il fossile conferma anche le prime attribuzioni a rettili come artefici delle orme fossili.
Il fossile però viene messo in disparte, prima a Milano, poi nel 1938 a Padova. Nel 1942 Giambattista Dal Piaz cita brevemente il reperto, parlando di "un bellissimo rettile lacertiforme di habitat sicuramente terrestre". Il fossile viene esposto nel museo con la denominazione Tridentinosaurus antiquus GB dal Piaz, ma appena nel 1959 viene descritto scientificamente da Piero Leonardi, che ne riconosce il significato, come vertebrato in peculiare stato di conservazione (resti di scheletro e patina carboniosa delle parti molle) e più antico delle Alpi meridionali.

Fig.4. Tridentinosaurus.

Per ulteriori tracce fossili si deve aspettare il 1946, quando Piero Leonardi si mette sulle tracce della flora permiana dell´Arenaria della Val Gardena, conosciuta dal 1877. Incuriosito da un resoconto sulla flora fossile della gola del Bletterbach, nei pressi di Redagno, si mette in contatto con l´autore dell´articolo, l´ingeniere Leo Perwanger. Insieme scoprono ulteriori fossili, e alcune lastre con delle impronte di rettili. Dopo alcune stagioni di scavo, nel 1951 Leonardi pubblica i risultati, e realizza l´importanza del sito.

Prosegue le ricerche insieme a Accordi e i suoi studenti.
Nell´estate del 1951 Leonardi scopre a fianco del Monte Seceda (Val Gardena) ulteriori piste e tracce nei sedimenti permiani affioranti. Nel 1955 insieme a Accordi rinviene una località lungo la strada tra Pausa e Doladizza, sul fianco sinistro della valle dell´Adige. E l´anno successivo, insieme ai suoi figli, individua un altro affioramento ad impronte permiane nei pressi del Passo di San Pellegrino.

Fig.5. Piste di tetrapodi con impronte di pelle (sotto a destra). Strati di Werfen, Triassico - Passo Palade.

Le ricerche nel sito di Bletterbach, una località di significato mondiale, proseguono dal 1973 fino ai giorni nostri. La risalita della gola che il rio ha scavato nel fianco della montagna offre la possibilità di attraversare l´intera successione sedimentaria permiana superiore, dalla quale proviene l´insieme più completo finora conosciuto di orme di rettili terrestri del Permiano superiore, con 8 icnogeneri e 9 icnospecie classificati finora, di cui alcune vengono attribuite a Sinapsidi, e sono di recente data ulteriore scoperte da parte del geologo Avanzini.

Fig.6. Vista della gola del Bletterbach (BZ).

BIBLIOGRAFIA:
AVANZINI, M. & WACHTLER, M. (1999): Dolomiti La storia di una scoperta. Athesia S.a.r.l. Bolzano: 150

AVANZINI, M. & TOMASINI, R. (2004): Giornate di Paleontologia 2004 Bolzano 21-23 Maggio 2004 Guida all´escursione: la gola del Bletternach. Studi Trentini di Scienze Naturali - Acta Geologica Supplemento al v.79 (2002):1-34

LEONARDI, G. (2008): Vertebrate ichnology in Italy. Studi Trent. Sci. Nat., Acta Geol., 83 (2008): 213-221

18.04.2010

T rex: Il re delle sanguisughe

In molti film di avventura é un’immagine ricorrente - il protagonista o una comparsa dopo aver attraversato una palude si toglie con disgusto delle sanguisughe (sottoclasse Hirudinea) dalla pelle. Ma c´e di peggio: mentre questi rappresentanti ectoparasiti normalmente si attaccano sull´ospite solo per un breve tempo, esistono tra gli Hirudinea anche specie che entrano nelle cavità del corpo, tra cui bocca, naso, occhi, ma anche aperture urogenitali e il recto, e sono noti per rimanerci per giorni o perfino settimane.
Mentre molte si queste specie sono opportuniste, alcune si sono adattate a uno specifico ospite, e l´uomo non fa eccezione,con dei parassiti personali. Esempi di infestazione nelle cavità interne di animali e uomini da parte di sanguisughe sono conosciuti da tutti i continenti, anche se si osserva una concentrazione nell´Africa e Asia.


Fig.2. Esempio di sanguisughe che attaccano le cavità nasali (C+D) Myxobdella annandalei e altri orifizi di mammiferi, tra cui occhi (A+B, Dinobdella ferox) da PHILLIPS et al. 2010.

La storia evolutiva di infestazione dei mammiferi, la sistematica e la filogenia di parassiti é ancora poco studiata, sopratutto per la mancanza di fossili di questi animali piccoli a corpo molle.
Un notevole progresso nella ricerca é l´attuale studio del materiale genetico delle specie conosciute.
In una recente ricerca viene presentata una nuova specie di sanguisuga, che infesta le cavità dell´uomo, e ha portato a notevoli risultati.
La specie Tyrannobdella rex ("Re delle terrificanti sanguisughe") é stata descritta dalle cavità nasali di diversi ragazzi peruviani, e raggiunge una lunghezza di 7cm.
Questa specie é unica nel suo genere in molti caratteri anatomici e la presenza sul continente americano sudamericano, di cui é l´unico rappresentante. Solo un´altra specie imparentata, Pintobdella chiapasensis, é stata descritta dal Messico. Ma T. rex differisce in molti punti dalle sanguisughe finora conosciute - possiede a differenza di altre specie (che né possiedono tre disposte a forma di Y) solo una singola "mandibola" con una file di pochi denti, che peró sono particolarmente sviluppati.

Fig.3. Morfologia comparativa di Tyrannobdella rex. A) Fotografia della singola "mandibola" con file di denti (Scala 100micrometri) estesa dall´apertura della "bocca". B) Ventosa anteriore con l´apertura boccale da cui esce la mandibola durante l´alimentazione (Scala 1mm). C) Immagine del profilo degli 8 denti sulla mandibola (Scala 100micrometri).D) Visione laterale della mandibola di un´altra specie di sanguisuga (Limnatis paluda) che mostra il tipico sviluppo dei denti degli Hirudinea - molti, ma piccoli denticoli (Scala 100micrometri) da PHILLIPS et al. 2010.

La distribuzione eterogenea di diverse specie di sanguisuga sulla terra con un simile stile di vita - di cibarsi del sangue nelle cavità di mammiferi- ha fatto pensare che si tratta di un’evoluzione convergente in diversi gruppi di sanguisughe.
Ma la nuova specie mostra caratteri che la collegano a altre specie con lo stesso comportamento, non solo sul continente americano, ma anche nel vecchio mondo. L´analisi effettuata sul materiale genetico conferma i caratteri morfologici e di comportamento - le sanguisughe che mostrano una preferenza per le cavità dei mammiferi si sono differenziati da un comune antenato.

Fig.4. Albero filogenetico ottenuto dallo studio delle sequenze mitocondriali di diverse specie di sanguisughe. Myxobdella, Praobdella e Dinobdella sono dei generi di Hirudinea che infestano l´uomo nel vecchio mondo. La nuova specie T.rex si colloca in questo gruppo e ne sottolinea l´origine monofiletica, da PHILLIPS et al. 2010.

Fig.5. Comune sanguisuga (Hirudo sp.) delle nostre latitudini.

BIBLIOGRAFIA:
PHILLIPS et al. (2010): Tyrannobdella rex N. Gen. N. Sp. and the Evolutionary Origins of Mucosal Leech Infestations. PLoS ONE 5(4): e10057. doi:10.1371/journal.pone.0010057

Immagine introduttiva: "Attack of the Giant Leches" (1959)

16.04.2010

Paleontologia dei vertebrati in Italia

A distanza di 25 anni dalla pubblicazione de "I vertebrate fossili", catalogo della mostra allestita al Palazzo della Gran Guardia a Verona nel 1980, questo volume presenta un panorama aggiornato dello stato delle conoscenze sui vertebrate fossili italiani, i quali, pur essendo relativamente rari nella documentazione paleontologica rispetto ai resti fossili di invertebrate, hanno grandissimo significato paleobiografico, paleoambientale e biostratigrafico.

Fig.1. Copertina

La nuova pubblicazione segue le orme del primo atlante, con un'iconografia accattivante e con reperti raramente segnalati. Purtroppo - da male in peggio in rispetto con il primo atlante- si è deciso di togliere completamente cartine o riferimenti geografici dal testo.


In questi 25 anni le ricerche sui vertebrati fossili hanno avuto uno straordinario sviluppo con il riconoscimento di nuovi taxa, la segnalazione di nuovi depositi, lo sviluppo dell' analisi tafonomia, la ricerca di correlazioni con depositi marini, la definizione si scale biocronologiche dettagliate e la integrazione dei dati paleontologici con quelli isotopici e paleo magnetici, oltre che con datazione radiometriche e geochimiche. Il volume registra puntualmente tutte le novità che sono emerse in questi anni.
I vertebrati fossili sono presentati secondo un ordine cronologico, a partire dal Paleozoico superiore fino al Quaternario e nei singoli capitoli, curati da specialisti nel settore o studiosi che hanno condotto attivamente ricerca sui reperti o luoghi menzionati, sono esposti i risultati delle ricerche condotte sia sui vertebrati marini che continentali di singoli giacimenti o periodi.

I depositi cenozoici risultano straordinariamente ricchi di resti di ambienti, e alcuni dei nuovi siti segnalati presentano un interesse globale sotto l'aspetto paleo ambientale e paleo biologico. I depositi a vertebrati continentali pleistocenici sono ordinati in uno schema biocronologico preciso e ben documentato. Le ricerche sui vertebrati pleistocenici insulari hanno dati interessanti risultati con il riconoscimento di successive fasi di dispersione di "Complessi faunistici" dal continente alle isole.
La descrizione della litologia dei depositi e il richiamo ai resti di altri organismi che frequentemente accompagnano i vertebrati marini tende a ricostruire il quadro ambientale che ha controllato la vita, la morte e i processi di fossilizzazione dei diversi taxa. I frequenti richiami all'affinità tra i taxa presenti in Italia e quelli noti in altre aree geografiche mettono in luce il significato paleo biografico globale di alcuni dei vertebrati fossili italiani e illustrano la successione degli eventi che hanno preceduto la formazione della penisola cosi come è attualmente.

La maturazione di una nuova sensibilità nei confronti dei depositi fossiliferi come documenti della storia del territorio e come monumenti naturali da conoscere e valorizzare, ha cambiato l'atteggiamento dei ricercatori e ha dato luogo a iniziative volte alla tutela, alla valorizzazione e fruizione del patrimonio paleontologico.
Purtroppo non tutte le iniziative finora hanno avuto successo, dato che il mulino burocratico lavora in tempi spesso superiori a quelli geologici.
Ricercatori professionisti spesso sono limitati sia nella risorsa tempo che in quella delle finanze (soprattutto negli ultimi tempi). Per monitorare l'intero territorio per questo la collaborazione con appassionati e dilettanti è essenziale, un fatto trascurato troppo spesso in modo negligente dai ricercatori stessi.
Molte segnalazioni di siti importanti provengono da appassionati raccoglitori di fossili, Si ha voluto sottolineare anche questo aspetto in un'opera per la quale si è scelto di utilizzare, nel rispetto del rigore scientifico, un linguaggio semplice e comprensibile anche da non specialisti e che potrà avere anche un valore educativo stimolando lo spirito di osservazione di qualche appassionato. Per chi ne volesse sapere in più, alla fine dei singoli capitolo viene messo a disposizione una lista essenziale di riferimenti scientifici.

Fig.2.
Fig.3.

Indice del volume:
Introduzione
Cenni di Storia della Paleontologia dei vertebrati in Italia

Ricerca, recupero e progetti di valorizzazione
Insularità e vertebrati terrestri endemici
PALEOZOICO E MESOZOICO

Il Permo-Triassico marino - I siti minori
I vertebrati continentali del Paleozoico e Mesozoico

Il Triassico medio delle Prealpi Lombarde
Il Norico marino dell'Italia Settentrionale

Il Giurassico marino
Il Cretaceo marino
IL PALEOGENE

I vertebrati marini
I vertebrati continentali
IL MIOCENE
I vertebrati marini I vertebrati della Pietra Leccese
Le terre emerse del Miocene
I vertebrati continentali
Le associazioni a vertebrati continentali del Messiniano
IL PLIO-PLEISTOCENE

I vertebrati marini

-I vertebrati Marini del Fiume Marecchia
-Il giacimento di Orciano (Pisa)
Le faune a mammiferi del Plio-Pleistocene
-L'area di Villafranca d'Asti e L' Unita Faunistica di Triversa

-I mammiferi fossili del ramo sud-occidentale del Bacino Tiberino, Umbria
-Poggio Rosso (Valdarno superiore)
-I vertebrati fossili delle ligniti di Pietrafitta, Bacino di Tavernelle/Pietrafitta

-Torre in Pietra

-La Polledrara di Cecanibbio (Roma)

-La Caverna Generosa: un tipico deposito di Grotta ad Ursus spelaeus

I VERTEBRATI DELLE ISOLE
La Sardegna
La Sicilia

Le isole minori

BIBLIOGRAFIA:
BONFIGLIO, L. (2005): Paleontologia dei vertebrati in Italia – Evoluzione biologica, significato ambientale e paleogeografia. Museo di Storia Naturale - Verona.
FERRETTI, A. (2005): Paleolibreria. PaleoItalia 13, Novembre 2005.

10.04.2010

Il genere Australopithecus

La descrizione di Australopithecus sediba ha aggiunto un´ulteriore rappresentante agli Australopiteci, un gruppo molto vasto come mostra il seguente resoconto:

Fig.1. Siti con resti fossili classificati o attribuiti al genere Australopithecus (Clicca per ingrandire la carta). Le zone rosse sono aree montuose. Dalla carta si riconosce il percorso della "Rift Valley", che attraversa quasi l´intero continente.

Australopithecus anamensis (4-3,9Ma): L´osso di un braccio di questa specie viene scoperta a Kanapoi, in Kenia, nel 1965. Il suo nome deriva da anam, che vuole dire lago, poiché le circostanze della scoperta fanno pensare che l´ominide viveva sulle sponde di un lago. I frammenti della tibia rinvenuti nel 1987 sulle sponde del Lago Turkana dimostrerebbero poi la postura eretta di questa specie di Australopiteco, progenitrice dell´A. afarensis.

Australopithecus afarensis (3,9-3,2Ma): Specie descritta tramite la scoperta della celebre "Lucy" il 30. novembre del 1974 nella regione etiopa di Afar. Ancora molti caratteri ancestrali: faccia larga con fronte bassa, naso piatto, mascella superiore sporgente e mandibola voluminosa di forma intermedia fra quella rettangolare e quella parabolica dell´uomo moderno. La specie viene considerata alla base della linea evolutiva umana.


Australopithecus africanus (3,5-2,3Ma): Il primo reperto risale al 1924, dalla caverna di Taung nel Sudafrica. Il cranio di questo esemplare di adolescente é arrotondato, con canini piú piccoli comparte a forme ancestrali. La posizione piú avanzata del foro occipitale fa supporre che fosse bipede. L´articolazione del ginocchio, tuttavia, mostra che l´andatura era piú vicina al modello delle scimmie antropomorfe di quanto non lo fosse quella di A. afarensis.


Australopithecus barhelghazali (3,5Ma): Specie rinvenuta nell´odierno Ciad, nel letto del fiume Bahr-el-Ghazal (il fiume delle gazzelle), ha messo in crisi le teorie scientifiche che ponevano l´Africa Orientale come culla esclusiva del genere Homo. L´unico reperto ritrovato é una mandibola con sette denti simile all´afarensis, ma con alcune differenze, come la sinfisi mandibolare piú verticale nella faccia interna e i premaolari a smalto.

Australopithecus boisei (2,3-1,2Ma): Riclassificato attualmente in un proprio genere Paranthropus. Uno degli ominidi piú grandi e robusti, adatto a una dieta alimentare vegetale con grandi molari, mascelle spesse a cui attaccavano possenti muscoli che a loro volta attaccavano alla cresta sagittale del cranio. Scoperto in Tanzania é stato uno degli ultimi Australopitheci a estinguersi ed ha convissuto con le prime specie di Homo.

Australopithecus aethiopicus (2,7Ma): Riclassificato attualmente in un proprio genere Paranthropus. Il primo ritrovamento é avvenuto in Etiopia e risale al 1968. I resti piú celebri provengono peró dal Kenya, dove viene alla luce un cranio detto "teschio nero" per la colorazione tramite ossidi di Magnesio presenti nel terreno. Discende dall´afarensis, del quale mostra lo stesso volto prominente, é il capostipite degli Paranthropus, con cui condivide la mascella rettangolare.


Australopithecus ramidus / garhi (5,2-4,4Ma): Riclassificato attualmente in un proprio genere Ardipithecus. I resti di 17 ominidi sono stati rinvenuti nel 1992 ad Asa Koma, in Etiopia. Le ossa delle articolazioi superiori e i denti rivelano dalle caratteristiche anatomiche ancestrali e una dieta vegetale, che fa pensare che questa specie abbia ancora molti tratti in comune con l´antenato comune di scimpanzé e ominidi. Il piede mostrerebbe una andatura bipede, nonostante il sua habitat naturale fossero le foreste.

BIBLIOGRAFIA:

DAY, M.H. (1986): Guide to Fossil Man. Butler & Tanner Ltd., London. 4th edition

RIVIECCIO, G. (ed.) (2007): L´evoluzione dell´uomo. NEWTON OGGI speciale. RCS Periodici.